Il contagio del desiderio

28.03.2020

                                            Quando il bambino era bambino,

                                               era l'epoca di queste domande:

                                           perché io sono io, e perché non sei tu?

                                           perché sono qui, e perché non sono lì?

                                quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?

                                        la vita sotto il sole è forse solo un sogno?

   non è solo l'apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?

                                c'è veramente il male e gente veramente cattiva?

                                              come può essere che io, che sono io,

                                                     non c'ero prima di diventare,

                                                   e che, una volta, io, che sono io,

                                                    non sarò più quello che sono?

(Peter Handke, Elogio dell'infanzia)

In questa bolla, chiamata quarantena, realizziamo gli effetti della distanza dall'Altro. L'atmosfera sospesa, che avvolge la vita quotidiana, nutre i ricordi. Penso a chi non incontro, a chi non c'è più, distante da me, fuori da questo luogo chiamato Mondo. Penso alla fotografia di Gabriele Basilico, alla potenza delle sue immagini che raccontano la città nella sua debolezza, nella sua imperfezione, nella sua ferita. Penso alle vedute aeree di Bruno Ganz nei panni di Damiel, l'angelo che vola ne Il cielo sopra Berlino, che rinuncia all'immortalità per "nascere uomo". Credo che la vita sia anche questo dolore, dolore di sentirsi "pesanti", impotenti. L'impotenza di essere umani. 

Penso a come avremmo vissuto questa esperienza virale, io e i miei genitori, tutti e tre, insieme. Isolati da tutto e da tutti. In una casa che normalmente isola dagli altri. Ora, in questa casa, che mi sembra più grande, troppo vuota, troppo muta, riscopro come era piacevole ascoltarli. Lo sapevo anche prima, e li volevo trattenere per ascoltarli ancora. La loro stanza vuota è diventata un ricettacolo di ricordi confusi. Loro sì, che avrebbero saputo affrontare la guerra al "microbo". Un essere tanto piccolo e tanto potente. Mia madre mi avrebbe raccontato le sue storie di quando era bambina e correva con suo fratello e sua sorella in campagna, perché in città era impossibile stare, le bombe avevano distrutto il centro storico. Mia madre le ricordava le bombe e ricordava la città deserta. Come mio padre ricordava il pane che non si trovava. Tutti a comprarlo ordinati in fila. Lo dovevi conservare perché non ne davano tanto. Oggi siamo in fila al supermercato, distanti un metro, con la mascherina e un autocertificato. Nessuna bomba cade dal cielo, ma un microbo ci cambia la vita. 

Nel tempo che elegge il rapporto con l'altro, come moto predatorio o sfuggente del legame, è arrivata la sentenza del virus. Comprendiamo, forse, che l'unità minima che forma la nostra società, è insita nelle nostre case. Abitazioni sempre più sterili, vuote, drammaticamente tecnologiche e "intelligenti", riflettono il nostro modo di relazionarci con gli altri, abitando vuoti anziché mancanze. Osserviamo in tutta la sua solennità, una città addormentata. Abitiamo una città "strana", perché Marc Augé, sostiene che si tratta di una città "che abbiamo sempre l'impressione di riconoscere, e che spesso riconosciamo, ma senza esserne certi di poterla situare, una città che si trova ovunque e da nessuna parte". È il ritratto delle città di un mondo globalizzato. Città sempre più seriali, che perdono la propria identità. Sono luoghi che si sviluppano in modo da costituire enormi agglomerati urbani periferici ai margini di un centro "antico" - come li definiva Roberto Pane -, che diventa il custode della particolarità più particolare di una polis. Oggi, che guardiamo la nostra città, dalla finestra o da un ballatoio, la riconosciamo nella sua quiete? Riusciamo a identificarla nelle sue puntuali differenze? Riusciamo a "guardare" per la prima volta ciò che abbiamo perso temporaneamente? Dovevamo arrivare a questo punto? Persi in una confusione mista a paura e impotenza? Una città è sempre caotica. Ma oggi conosciamo un altro caos. Conosciamo l'eccedenza della nostra esistenza. Conosciamo la vita senza l'Altro. Conosciamo la mancanza dell'Altro. Incontriamo la vita e la morte. "Il caos non è l'opposto gnostico del cosmos, ma la sua matrice, la sua ombra, il suo sangue" scrive Massimo Recalcati ne Le nuove melanconie.

La vita senza limiti dell'uomo ipermoderno ha trovato un punto di arresto. Mantenere le distanze è un dispositivo precauzionale, adottato in via ordinaria per scongiurare uno straordinario contagio virale che separa le nostre vite. Il tempo dominato dalla comunicazione on-line, osserva un fenomeno epidemico che sospende la dinamicità di una vita collettiva, convertendo il flusso sociale, in un sistema infrastrutturale di distanze preventive. Aspiriamo a ritornare ad una vita sociale e lavorativa che rompa la mortificazione dell'isolamento. Il disagio sociale della lontananza si celebra tra le pieghe di una comunicazione virtuale ispessita dall'introduzione di norme che regolano i limiti della nostra libera circolazione. La prudenza, il buon senso, ci invitano a cementificare le difese che ci dividono dall'Altro. Sempre più persone incontrano il "brivido" dell'isolamento. L'ordine ideale della polis è stato stravolto dall'irruzione di un fenomeno epidemico che ha scardinato la scena del mondo. La minaccia infinitamente piccola modifica la nostra esistenza, la nostra modalità di socializzazione. È il virus che mortifica il senso del tatto. Quando il pericolo ci tocca ricordiamo, che di fronte alla morte e alla malattia, siamo inermi, indifesi.

©Stefania Leone 2013
©Stefania Leone 2013

In questa travolgente azione virale, la dimensione pubblica si alleggerisce della presenza umana. La forma semantica e materiale della città emerge nella sua trascendenza. Il cuore pulsante della società si placa e si chiude in un silenzio temporale che non scandisce le giornate. Tutti i giorni della settimana sembrano uguali. Il mondo che potevamo abitare diventa estraneo e ci confina nelle nostre isole familiari. La scena urbana si presenta oggi come un vuoto incommensurabile. Il tempo della distanza ci regala una fotografia urbana senza precedenti, senza veli, ai limiti della realtà. Non ci sono macerie, non ci sono crolli. Le architetture sono dignitosamente in piedi a vigilare la quiete degli spazi lasciati vuoti. La città indossa una maschera o per la prima volta si svela? L'anima della città si dissolve lentamente, adagio, nel suono di un eco, nell'ultima voce del coro. Il silenzio urbano è assordante. Questa è l'atmosfera di una società in pausa. Questa è l'immagine che domina i nostri orizzonti. Non riconosciamo l'ambiente in cui abitiamo. Il rapporto tra l'interno e l'esterno si è modificato. Evapora l'aria pesante che respiriamo, lo smog che alimentiamo, il cemento di cui abusiamo. L'ordine ideale della città vorrebbe escludere ogni forma di disordine, di imperfezione, di mancanza. Ma registriamo immagini apocalittiche di un reale insensato. Ammiriamo, sbalorditi, il ritratto di un impossibile da nominare e rappresentare. Lo svuotamento improvviso della dimensione urbana è avvertito maggiormente nelle città più grandi, investite da un traffico polveroso, che i piccoli centri, hanno perso o non hanno mai conosciuto. Ma anche nelle piccole realtà urbane, questo silenzio inspiegabile, era "fuori programma", fuori dal programma della Civiltà. Ma questa eccezione insegna che facciamo parte di una società, anche e soprattutto, quando tutto si ferma, quando la città depone le armi e dice basta! Arretriamo nelle nostre dimore, nel nostro rifugio. Incontriamo la città solo per i beni di prima necessità. Ritorneremo ad incontrarla come incontreremo le persone.

© Stefania Leone 2014
© Stefania Leone 2014

Intanto la contempliamo, la cerchiamo, la ricordiamo e la osserviamo perché "la città - secondo il pensiero di Marc Augé - non avrebbe questo potere poetico, questa capacità di personificare o di rappresentare simbolicamente l'incontro se non fosse, in partenza, il luogo della messa in relazione, il luogo del sociale in cui si coniugano, ed eventualmente si affrontano, le storie, le classi sociali e gli individui". L'esperienza dell'isolamento ci sposta dalla dimensione del luogo pubblico ad un luogo intimo. Perdiamo l'occasione dell'incontro sociale. 

L'epoca invasa dal narcinismo, termine coniato da Colette Soler, si trova di fronte ad un evento nuovo che mette a dura prova il godimento senza limiti dell'uomo ipermorderno. La dinamicità di una collettività consumista, maniacalmente ancorata al possesso dell'oggetto, trova un ostacolo. Siamo esseri atomizzati nel panico di una perdita di padronanza che non sappiamo elaborare. Impareremo che non possiamo avere tutto, godere di tutto, sapere tutto, essere tutto? Impareremo forse che non siamo immortali, che non abbiamo il controllo sulla vita e sulla morte? Impareremo che siamo tutti uguali dinanzi alla malattia, al dolore, alla morte? Impareremo che il limite ci rende più uniti? 

Abitiamo il limite della distanza fisica, in un tempo che ha elogiato la comunicazione virtuale. La distanza è stata oggetto di studio di antropologi e architetti nell'uso dello spazio e della sua potenzialità di accogliere un dato numero di individui. Bruno Munari, descrive nel suo saggio titolato "Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale", il concetto di prossemica interrogandosi sulla distanza ottimale che permette la convivenza tranquilla, o quella minima, nella quale si creano situazioni sgradevoli. La prossemica si può definire come un linguaggio utile per capire le possibilità di stabilire una vicinanza e una lontananza sufficienti, quanto necessarie, tra noi e gli altri, tra il nostro corpo e il corpo dell'Altro. La prossemica riguarda il corpo. Misura la distanza tra corpi. Il coronavirus ha colpito la dimensione della nostra presenza nello spazio, in rapporto al corpo dell'Altro.

Gli effetti del contagio misurano la nostra capacità di fare coesione, di creare un collettivo, di offrire una cura. Siamo ancora una volta soggetti in balìa di un imprevisto che ha il volto di un contagio invisibile. Il reale si sottrae alla visione, alla ricerca di senso, alla lettura di un significato. L'invisibile ha il volto del segreto, di una impossibilità a dire, ad immaginare. La piccola minaccia ha il grande potere di introdurre il pensiero di un pericolo mortale; ma le malattie e la morte, sono parte integrante della nostra esistenza e contengono una incognita, un enigma. È un reale che punge, che si fa sentire nel caos di una comunità che prima si affolla, poi si frammenta. Il reale è l'impossibile - afferma Jacques Lacan. Il virus costituisce un buco reale nella scena del mondo che prende la forma in un disastro sociale paradossale.

È una prova che tocca la soggettività umana. È il tempo in cui bisogna imparare a non calmare i vuoti. È il tempo in cui impariamo ad aspettare. È arrivato il tempo in cui "lavarsi le mani" non vuol dire scrollarsi la responsabilità di compiere un atto, ma assumerla pienamente. Siamo chiamati ad assumere una responsabilità civile e penale. Ogni cittadino assume la responsabilità delle proprie parole, delle proprie dichiarazioni, dei propri atti. Impariamo che le parole hanno un peso ed una conseguenza. Siamo tutti perseguitati e persecutori in questa scena paranoide. Siamo eticamente responsabili del nostro agire nei confronti degli altri. Attraverso le nostre azioni scegliamo di salvaguardare la salute e la libertà dell'altro. Il virus è di fatto uno sconosciuto. Non è determinato. Può incarnarsi in chiunque. Occorre attraversare il difficile guado che conduce alla elaborazione di un lutto e fare i conti con la presenza di una voragine senza fondo, di un'ombra che non si lascia illuminare. L'eccedenza dell'esistenza non potrà mai essere rinchiusa in una logica matematica, in una sterile formula. Nella dimensione urbana di una condizione di isolamento, si tratta di fare spazio ad una "vulnerabilità condivisa" per usare una definizione di Recalcati. Una vulnerabilità che ci vede coinvolti nella esigenza odierna di mantenerci lontani per poter accorciare presto la distanza tra noi. Scopriamo che non vogliamo stare lontani; ma vogliamo essere più vicini. In questa contingenza di isolamento, facciamo esperienza della mancanza dell'Altro? In un tempo che rifiuta la castrazione simbolica del limite è possibile fare esperienza della mancanza?

La difesa dal contagio riorganizza il nostro modo di vivere, di entrare in relazione, di provvedere ai beni di prima necessità, di escludere il superfluo, di ripensare allo spazio, di introdurre una distanza di sicurezza, di rivedere il concetto di povertà. Mantenere le distanze si configura come un nuovo tabù, un nuovo limite della nostra libertà. Stiamo vivendo l'esperienza della distanza come prova del nostro "stare insieme", del dare prova di una solidarietà che ci pone sullo stesso piano superando le differenze.

L'impossibilità di incontrare la folla, di ridurre le distanze, costituisce il bordo entro il quale dobbiamo trattenere le nostre vite. È il tempo in cui facciamo esperienza di un limite e della nostra risposta a tale interdizione. Il confine tra noi e l'Altro, tra noi e la polis, ci salva dal virus ma ci invita a simbolizzare l'esperienza di un limite. La castrazione operata dalla Legge, delinea un confine. Questo momento mette alla prova, non tanto la nostra resilienza, ma il nostro desiderio. Se, come descrive Recalcati, il soggetto maniacale "non percepisce nessun legame, vive nella propria "millanteria", nella propria "spensieratezza" e nella totale "mancanza di riguardo" verso l'Altro, come vive l'esperienza del limite? La Legge interdice l'accesso alla polis ma anche al luogo del consumo, al contatto con l'altro, alla possibilità di essere contagiati. L'uomo "costruito" dal discorso del capitalista imparerà, da questa esperienza del limite, che la libertà non è illimitata? Che esiste un'altra forma di "felicità" che non sostiene l'illusione che tutto è possibile? Che la felicità non è riconducibile al possesso illimitato degli oggetti? Che il Dio denaro non compra la salute e quindi non può evitare la morte? Che l'esistenza non è eterna? Che la malattia ci rende inermi? Che la solidarietà e l'amore dell'altro possono "salvare"? L'uomo senza inconscio, può elaborare il vincolo imposto dalla Legge, che prevede la sua esclusione dalla scena urbana? Come affronta questa particolare esperienza del limite che lo slaccia dalla comunità dalla polis? L'introduzione di una limitazione della nostra libertà non è forse un nuovo "tabù" che invita a riflettere sulla nostra capacità di rispettare l'interdizione operata dalla Legge? Ma non dovremmo forse ricordare che non c'è esperienza del desiderio senza l'esistenza di un limite? Non è forse l'elaborazione simbolica del lutto, che ci consente di allontanare quelle passioni tutte umane dell'odio sociale e della violenza allucinatoria, irrorate da una pulsione a chiudere? In questo tempo critico, non dovremmo scongiurare ogni possibile azione violenta e favorire la solidarietà e l'amore per l'altro? 

©stefanialeone2014
©stefanialeone2014

In una società veloce, iperconnessa, vivere in quarantena, vuol dire rallentare il ritmo ma anche mantenere attivo il collegamento virtuale, ridimensionando la nostra esperienza abitativa attuale all'uso del mezzo tecnologico. Ma la quarantena può essere un'occasione per rivedere il nostro modo di saper abitare la sfera intima della propria casa, in relazione alla presenza dell'altro, senza passare dall'uso del mezzo tecnologico? La sconnessione alla rete, nell'era del coronavirus, può ri-connetterci alla vita? Se il periodo di quarantena nega ogni contatto, incoraggiando altre forme di collegamento per ridurre le distanze, non si rischia di ridurre l'esperienza di questo isolamento ad un ulteriore isolamento offerto dalla rete? Nel suo saggio titolato "Il complesso di Telemaco", Recalcati avverte che "la connessione alla Rete può non potenziare, ma supplire la connessione alla vita. Certo, talvolta può ampliare la connessione alla vita, ma può anche provocarne una sconnessione". L'isolamento vissuto come limite da cui sorge il desiderio, non può essere vissuta come una occasione per coltivare il proprio talento che salva dal precipizio del non senso? Non possiamo intendere la quarantena come una esperienza in cui tentiamo di recuperare un rapporto tra l'esistenza umana e l'esperienza di essere in un luogo? Imparare a vedere il nuovo nello stesso? Imparare a gradire ciò che abbiamo? La presenza dell'oggetto tecnologico non è forse troppo ingombrante lì dove, in una condizione di abitabilità permanente, si rischia di esserne fatalmente dipendenti? Possiamo credere che la navigazione on-line sia una posizione "securitaria" che ci vorrebbe "salvare" dal rapporto con l'Altro? Il rapporto con il partner tecnologico non annulla forse ogni possibilità di rapporto con l'Altro, riducendo drasticamente l'esperienza abitativa ad una aderenza mortifera con l'oggetto-Cosa? L'abitabilità di uno spazio può rompere questo stato di "chiusura" attraverso una reale esperienza di "permanenza" quale sinonimo di apertura all'ambiente e alla presenza dell'Altro?

©StefaniaLeone2020
©StefaniaLeone2020

La città non si vive solo in strada, impegnati in rincorse affannose, affollando le strade, persi nel display del nostro smartphone! Forse dopo questa esperienza impareremo che una città si abita assaporando l'unicità del luogo nella sua bellezza, nel suo rapporto con il contesto, negli incontri che possono scaturire. Una città non è mai uguale a se stessa, cambia con noi, con il nostro modo di riscoprirla, con la luce, con i colori delle stagioni e con un'infinita combinazione di eventi che in essa convergono. Una città non si smette di abitare quando si rientra in casa. C'è sempre un pezzo di città che portiamo dentro, in cucina, in camera da letto, in bagno. Impareremo ad abitare la nostra sfera privata, il nostro guscio, non come luogo momentaneo di passaggio. Abitare è anche soggiornare in casa in un rapporto di continuità tra l'interno e l'esterno. Abitare vuol dire non dimenticare il rapporto con il quartiere, con la dimensione pubblica della nostra città. Forse l'uomo ipermoderno, nella sua dimensione autistica e indipendente, ha ignorato il mondo esterno visto dall'interno. Si è chiuso nel suo bunker e tiene lontano ogni possibile sibilo. Abitare è muoversi, mantenere il contatto con l'ambiente che ci circonda, abitare in un rapporto comunicativo con lo spazio esterno, spalancando le finestre, abitando i balconi, contemplando il paesaggio dal terrazzo. Impareremo che l'abitare è strettamente connessa alla nostra presenza, alla nostra vita, al nostro dolore, alla nostra gioia, ai nostri progetti, alla nostra capacità di guardare le cose, alla presenza del corpo. Impareremo che la nostra presenza non è solo virtuale. Impareremo che nessun isolamento è davvero radicale. Impareremo che non siamo esseri "immateriali". 

Nel panorama in cui nessun contatto è consentito - nessuna stretta di mano, nessun bacio, nessun abbraccio - apriamoci al contagio del desiderio dell'Altro. Eros contro Thanatos. Il coraggio contro la paura. La lezione etica che possiamo ereditare, da una rivoluzione epidemica che travolge nella sua insensatezza il globo terrestre, è a mio avviso, quella di non arretrare di fronte alla vita, di affrontare la paura che ci vuole allontanare dalla vita, di avere fede nella possibilità di ripartire. L'esperienza del limite è fondativo della nostra esistenza, ci protegge dai pericoli, ma allo stesso tempo, ci difende da una chiusura mortale, sollecitando la nascita di un desiderio vitale. In fondo non è questo il compito "etico" di ogni tabù? Limitare per far sorgere il desiderio? Limitare per fare esperienza che non bisogna avere paura della mancanza? Occorre "il desiderio di un agente moltiplicatore" - direbbe Recalcati - che sappia moltiplicare i talenti contro la moltiplicazione del virus. Il contagio del desiderio è il miracolo che trasforma l'impossibile in possibile. Anche il contagio del virus incontra, nel nostro desiderio, un arresto. Il vento del disgelo accompagnerà l'arrivo della primavera, spazzando i ricordi tristi e riportando le nostre vite nel caos della polis.

Benevento, 14/3/2020

© 2020 Blog di Stefania Leone Tutti i diritti riservati.
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia