L'ora blu

04.11.2019

Vedere l'invisibile 

L'invisibile è l'esegesi di una esperienza che appartiene al carattere aleatorio del reale, in quanto forma imperfetta ed impossibile della nostra esistenza. Il reale è l'impossibile - afferma Jacques Lacan. Ne Il seminario dal titolo Le Sinthòme, Lacan afferma risolutamente che il reale riguarda la morte, che il reale è "il reale puro della pulsione di morte".[1]Il mistero della vita per noi, esseri parlanti, è accompagnato, sin dalla nascita, dal mistero della morte: alla radice della vita c'è la morte. Quando veniamo al mondo, iniziamo anche a morire. La morte non rende eterni. La morte sfugge ad ogni rappresentazione simbolica. Non ci sono fughe, scorciatoie, angoli in cui rifugiarsi. Siamo totalmente esposti, inermi, indifesi. Siamo soli e senza scuse - direbbe Sartre.

©stefanialeone2013
©stefanialeone2013

Il reale si scrive al di fuori del simbolico in una posizione eccentrica rispetto all'ordine del linguaggio. Il tempo è complice dell'assoluta precarietà di questo Mondo. Siamo cechi dinanzi ad un reale che non ha sagoma. L'invisibile ha il volto del segreto, di una impossibilità a dire, ad immaginare, a raffigurare. Il reale ex-siste fuori da ogni tentativo di simbolizzazione, è privo di un significante che gli dia senso. Quando riusciamo a dare forma all'invisibile, si compie il miracolo della nostra esistenza. Il miracolo della forma. Si tratta, ogni volta, di incontrare la dimensione spirituale dell'esistenza. La morte è sicuramente un'esperienza dell'invisibile, dell'innominabile, dell'impossibile che non ha contorni. Elaborare la morte di una persona è incontrare un vuoto che non si lascia mai colmare dalla logica, dalla razionalità, dalla coscienza. Non possiamo dare immagine alla morte e non possiamo darle un nome. L'assenza è irrappresentabile. Se per Cartesio e Kant, soggetto e rappresentazione coincidono, per Lacan avviene una schisi, una separazione di questo connubio. Lo scarto tra l'azione simbolico-immaginaria della rappresentazione e l'impossibilità di trovare un nome al reale dell'inconscio, segna una strutturale divergenza tra soggetto e rappresentazione.

Attraversare il difficile guado, che conduce alla elaborazione di un lutto, è fare i conti con la presenza di una voragine senza fondo, di una assenza divenuta inamovibile, di un'ombra che non si lascia illuminare. Qualcosa Resiste. Qualcosa resta nascosto. Mentre l'ermeneutica ricerca il senso, la psicoanalisi trova, in questa ricerca, un arresto, un incontro mancato, una caduta di senso - scrive Recalcati. Il reale si sottrae alla visione, alla ricerca di senso, alla lettura di un significato. In questa resistenza si insinua un dolore di esistere immanente, pietrificato, cinico e beffardo. Il dolore risiede nell'impatto con un reale che non possiamo spostare. Esiste un modo per sopravvivere a questo dolore? La forma che diamo al sentimento religioso non è forse una risposta al dolore di esistere? Ma che forma ha la fede? Affidarsi al non conosciuto, fidarsi "ciecamente", non è forse la postura strutturale della fede? Saper "vedere" la luce, nonostante il buio, non si può intendere una forma di fede? O esiste una forma di spiritualità universale, che dobbiamo rispettare come unica Verità? Avere fede nel mistero dell'altro, nel suo segreto, non è forse una forma del sentimento religioso che possiamo già sperimentare in questo Mondo? Al contrario, la difesa fobica costruita contro questo Mondo, si può ancora innalzare al rango di una "fede" che considera la vita solo un passaggio propedeutico per arrivare ad un altro Mondo? La fede, vissuta come rifugio - direbbe Freud - in un Altro Mondo, si consuma nell'attesa di un Altro Mondo. Chi ha "fede" in un Altro Mondo, non vive questo Mondo, ma confida in un Mondo migliore di questo Mondo ingiusto. Credere che la morte conduca lo spirito della persona cara nel Regno dei Morti, in un Regno senza tempo, senza peccato, è una strategia di difesa dall'ustione di questo Mondo? Chi ha fede in un Altro Mondo, non ha fede in questo Mondo e in chi vive questo Mondo?

Ma questa concezione religiosa della spiritualità è sufficiente a placare le domande che insorgono in chi elabora un lutto? La fede "cristiana" può confortare chi crede che la morte sia giustificata da una dissociazione soprannaturale tra il corpo e lo spirito? Si tratta di una forma di spiritualità che si radica, nel cuore degli esseri uomini, come negazione, rifiuto, disgusto, mortificazione del Mondo a partire dal presupposto che questo Mondo non custodisca nessuna Verità. Esiste una seconda forma del sentimento religioso eticamente cristiano che offra una chance a chi vive in questo Mondo? La kenosis ribalta la dimensione spirituale della Fede universalmente riconosciuta. È l'incarnazione, il tema teologico che isterizza la dottrina cristiana. La kenosis introduce una nuova domanda sulla forma di una spiritualità che tiene insieme l'elemento dell'immanenza e l'elemento della trascendenza per dirla con le parole di Recalcati.

©stefanialeone2015
©stefanialeone2015

La trascendenza non è più una fuga dall'immanenza ma una sua piega interna. Questa versione del sacro non libera l'uomo dal Mondo ma lo invita a riconsiderare l'imperfezione, la tragicità, la singolarità di questo Mondo. C'è la possibilità di vivere l'esperienza della fede come trascendenza in quanto inclinazione a "vivere" nell'immanenza di questa vita. Chi ha fede in questo Mondo, guarda senza paura, la bellezza, la ricchezza, di questo Mondo. Guarda anche la crudeltà, l'unicità di questo Mondo e nega l'idea che questo Mondo sia Falso rispetto al Vero, non si rifugia istericamente nella preghiera di un Mondo dietro al Mondo, di una assenza di Mondo di questo Mondo, più Mondo di questo Mondo, direbbe Recalcati. La cifra simbolica della vera spiritualità non è forse saper "vedere e amare" l'imperfezione di ciò che incontriamo in questa vita? Non sarebbe più glorioso amare questo Mondo imperfetto, nella sua assoluta fragilità? La forma più indistruttibile della fede non è forse credere, che solo in questo Mondo, possiamo incontrare la nostra vocazione che ci salva dal buio della pulsione di morte?

Una spiritualità che accetta l'evento che si compie, qui e ora, in questo mondo. Un evento che ogni volta possiamo rintracciare nell'operazione simbolica avanzata da alcuni pittori, poiché, solo l'evento dell'opera di artisti "non convenzionali", può azzardare una prossimità, una saturazione del vuoto impossibile da colmare. Gli artisti propongono nella scena del mondo, una dimensione religiosa legata al miracolo della forma di questo mondo. Una pittura che prova ad ospitare l'insensatezza delle Cose. Una pittura in cui, ogni cosa del mondo, assume il volto del Santo. E' la grande testimonianza che troviamo nell'opera di Van Gogh, di Morandi, di Burri, di Kounellis, di Parmiggiani, in cui l'immanenza dell'immagine, rivela il mistero della trascendenza come piega interna dell'immanenza. Questi artisti, nel tentativo infinito di dipingere il volto del Santo, hanno dipinto il volto del Mondo. E qual è il volto del Mondo, se non il volto delle Cose che appartengono a questo Mondo? Una pittura capace di problematizzare l'impossibile da raffigurare, cercando di dare un'immagine all'invisibile. Il vero miracolo è dare forma a ciò che non si lascia trattenere. La forma di un'opera è l''incarnazione di una immagine che la abita e la trascende. La pittura, che scatena domande, fonda un lavoro simbolico. Una pittura che prova a conferire un'immagine al Mistero, rende il Mondo, questo Mondo, l'unica esperienza spirituale possibile. Il grande compito dell'opera d'arte è rendere sensibile l'invisibile - sostiene Claudio Parmiggiani. Non è forse questo principio, a rendere in qualche modo, possibile, l'impossibile? Non è questa la missione profondamente religiosa dell'arte, che consente all'invisibile, di farsi carne donando sensibilità alle Cose?

Un luogo imperfetto

Non voglio dimenticare una frase di Parmiggiani pronunciata da Recalcati: "Camminiamo nel mondo accompagnati dai nostri morti". È ciò che prova ogni essere umano quando deve affrontare il distacco dai suoi cari inferto dalla imprevedibilità della Morte. Anche quando essa è preceduta da una malattia insindacabile, il suo evento si palesa impossibile da ospitare. La malattia senza guarigione, la malattia che obbliga all'immobilità, la malattia che lacera il corpo, la malattia che toglie vitalità, mostra il volto di un reale impossibile da ritrarre. La malattia può preparare alla morte, ma non spiega la morte.

©stefanialeone2016
©stefanialeone2016

L'esperienza della perdita attraversa attualmente la mia vita. Perdere le persone più care al mondo, mi spinge a scrivere la mia sintomatica osservazione su ciò che il delicato lavoro luttuoso implica nel mio vissuto. L'immanenza dei loro corpi lascia il posto ad una trascendenza che situa, la testimonianza simbolica delle assenze, nella presenza dei luoghi, delle cose, delle persone incontrate in questo Mondo. La prima considerazione è legata alla ri-abitazione di quei luoghi in cui mi sento accompagnata dalla loro assenza. L' abitazione, dove abbiamo vissuto momenti estatici di felicità e momenti tragicamente dolorosi, mi accoglie con un altro volto. La stessa casa è una "nuova" casa. Mi ritrovo - come direbbe Recalcati - ad "attraversare e riattraversare i ricordi in un movimento spiraliforme, un passo avanti e due indietro". Ci sono dei momenti molto precisi, rapidi, lucidissimi, in cui mi rendo conto, all'improvviso, che non li rivedrò più in questo Mondo. E non mi conforta in nessun modo, pensare che li rivedrò altrove. Il pensiero di averli persi per sempre, di non poterli più incontrare, è un dolore inossidabile. Non esiste più un tempo per noi. Il nostro tempo è scaduto. Per sempre.

Ma esiste un luogo, in questo Mondo dietro al Mondo, dove è possibile incontrarli? La casa che hanno abitato, le strade che hanno percorso, la città in cui hanno vissuto, le persone che hanno incontrato costituiscono la nuova scena del mondo in cui gli assenti trovano il modo di essere presenti. In tutti questi luoghi, in tutti questi momenti, loro continuano a vivere. Non raramente sono circondata da persone che hanno fede nell'esistenza di un altro Mondo. Per i credenti, l'aspetto puramente spirituale, si esaurisce nel credere melanconicamente, che la persona cara sia volata in cielo. La fede indistruttibile di credere che esista un luogo, lontano, che accolga i defunti e che un giorno li rincontreremo. Ma pensano anche, fermamente, che le persone care siedano ancora accanto a noi. Mi sembra una contraddizione in termini. Volano in cielo o sono ancora tra noi? Ma è questo "sedere" accanto a noi, che mi conduce a pensare, alle persone assenti, ancora presenti tra gli oggetti e negli oggetti che hanno lasciato, nelle parole di chi hanno amato, nella testimonianza di chi hanno ascoltato, nel frutto del proprio talento. Questo, a mio giudizio, è il carattere eterno dell'assenza divenuta presenza.

Sono sensibile alla sacralità degli oggetti. Passo il mio tempo a ri-sistemare la casa. In ogni gesto o movimento mi accorgo che io stessa sono una testimonianza della loro assenza. Mi sorprendo immersa tra le nostre fotografie. Mi rivedo nei loro volti. Mi ritrovo. Gli stessi oggetti, che affollavano gli ambienti, hanno cambiato posizione. Sono appesantiti da un velo di polvere. C'è sempre uno strato sottile di polvere sulle cose. Sparsi in ogni ambiente, gli oggetti "sacri" della mia famiglia, mi comunicano l'assenza di chi non può più curarli, toccarli, usarli, spostarli. In queste tracce recidive, sedimentate nella loro immediata immanenza, risiede la loro trascendenza. Si può intendere la sacralità che abita gli oggetti, come l'unicum indistruttibile, inalienabile, che tiene insieme l'immanenza della materia alla trascendenza dell'icona?

©stefanialeone2014
©stefanialeone2014

L'immagine dell'invisibile è nel mistero irrisolvibile delle Cose; l'immagine della morte, dell'assenza, è nella presenza del mistero delle Cose. L'assenza si concentra nell'eco di un coacervo di segni, di odori, di oggetti utili ed inutili. Ogni cosa mi riporta un pezzo della loro esistenza. Scopro, con gioia, di vivere ritrovamenti improvvisi di Cose che riemergono dall'oblio e che la memoria mi costringe a non ignorare. Il sorriso dei miei nipoti, lo stile di mio fratello, la risata di mia zia, il saluto della mia vicina di casa. E ancora: il pettine bianco, il bastone di radica, il pacco di garze, il disegno dei Faraglioni, la scatola dei timbri, la tazza di orzo bollente, i gerani rossi sul balcone, la collezione di bottoni, la spilla da balia, la penna nel taschino, il pennello per la barba, il gilet con i bottoni, le ricette in cucina, la televisione spenta, la poltrona vuota, il plaid sulle gambe, la dentiera nel bicchiere, il trapano nella scatola, la libreria da montare, il presepe da costruire, la fila in farmacia, il cinema sotto le stelle. E ancora: il profumo della cannella, le uova al tegamino, le caramelle alla menta, la torta di compleanno, l'aroma di un liquore, il rumore delle stoviglie, il passo delle lancette, i centrini di macramè, la penna che non scrive, il caffè in camera, la scatola di pastelli, il concerto di Madonna in tv, l'ultima vacanza al mare, l'incidente stradale, il corso di nuoto, tanto altro ancora. Si tratta di una catena infinita di cose che rimandano ad altre cose. Il contatto quotidiano con le nostre cose, mi indica un modo creativo di frequentare l'ombra della ferita. Questa è la forma sacra della mia preghiera.

Incontrare l'assenza

Incontrare l'assenza è fare esperienza di una presenza mai del tutto dimenticata. L'assenza non è mai una condizione dichiaratamente definita. La presenza dell'assenza non ci abbandona mai. Non lascia mai il campo. Non abbandona mai questo Mondo per entrare in un Altro Mondo. Il lavoro del lutto non si completa, non chiude il vuoto, ma lo evita e lo incamera come effetto di una nuova generatività. In questa fuga perpetua dalla dimensione invisibile, si definisce la creatività.

Massimo Recalcati, nel suo testo essenziale dedicato al trauma della perdita, titolato Incontrare l'assenza, riprende le pagine di un breve articolo scritto da Freud nel 1915, quando sull'Europa cala il buio insensato della Prima Guerra Mondiale. L'articolo titolato "Lutto e melanconia" è un elogio alla perdita. Con il lavoro del lutto, si avvia una definitiva e spietata convivenza con una assenza che è diventata presenza. Il mondo cambia il suo volto, non è più come prima. Recalcati spiega che il lutto, per Freud, "non è solo suscitato dall'assenza di qualcuno che ormai non c'è più: è certamente anche questo, è esperienza dell'assenza di chi amavamo, ma poiché chi amavamo dava senso al mondo, la perdita di cui il lutto è la reazione affettiva è anche perdita del senso del mondo". L'incontro con la perdita, seguendo il ragionamento di Freud, apre tre possibilità: la negazione maniacale, la completa dimenticanza come risultato del lavoro del lutto e la reazione melanconica. L'incontro con la morte, è per Recalcati, un incontro con una nuova forma della vita, la forma dell'assenza. Dare forma è saper individuare il luogo in cui abita l'assenza. Chi elabora un lutto, si trova, nell'affannosa ricerca della persona scomparsa. La domanda rivolta all'assente sempre presente, è sempre, un vano tentativo di sapere, "dove" e in che forma, possiamo riconoscere la presenza che è diventata assenza.

"Dove? In quale mondo va chi se ne va? Da una parte abbiamo dunque il mistero della morte. Ma indubbiamente, per chi resta, il fatto che l'altro entri nel regno dei morti lo costringe a rapportarsi non più con la sua presenza ma con la sua assenza. Ma come si può essere in rapporto con l'assenza?"[2] 

Recalcati sostiene che "il lutto è una reazione di tristezza". La reazione affettiva alla scomparsa è una presenza insopportabile, un passaggio strozzato, necessario, attraverso il quale, avanza un pasticcio di ricordi incoerenti e confusi, di ritrovamenti vaghi e inafferrabili, di momenti di gioia e di dolore. Il clima psichico del lavoro del lutto, che Recalcati descrive, è "come un clima pesante, necessariamente pesante, di abbandono del mondo, rappresentato nella nostra cultura dal colore nero che dovrebbe accompagnare chi si trova impegnato in questo difficile lavoro". Una vera altalena in cui l'assenza e la presenza si manifestano. Riabitare i luoghi, quei luoghi, in cui l'assenza è assordante, diventa un'esperienza fondamentale per elaborare la perdita senza evitarla. È importante rivisitare le "cose" che hanno la sacralità di una icona. Si tratta di incontrare ogni volta il nero della notte, l'angolo buio della stanza, la polvere "viva", la traccia informe di una sagoma inesistente ma ancora insistente. Il rischio che si corre, è quello di iper-idealizzare l'oggetto perduto, di non saperlo "vedere" mortale. Il defunto portava la morte con sé come tutti noi - scrive Recalcati. La de-idealizzazione è un lavoro sul limite dell'essere umano. Sul limite della Morte.

La possibilità di elaborare la perdita, è legata inevitabilmente, al tipo di rapporto tenuto con la persona scomparsa. Recalcati illustra, attraverso il racconto di un caso clinico, in che modo, l'esperienza della mancanza, investa non solo il soggetto, ma addirittura Dio. Chi assiste un malato si affida, se è credente, alla preghiera. Ma che tipo di preghiera? Quella che noi tutti abbiamo imparato. Quella che invoca un Dio superiore che vede tutto. Dio è, in questo caso, il "soggetto supposto sapere". Ma chi prega Dio si scontra con il reale, impossibile da definire, di una spietata circostanza: perdere la persona amata pur avendo pregato tanto. Dio non risponde al grido, non salva dall'esperienza tragica di perdere per sempre l'oggetto amato. Non esiste l'Altro dell'Altro che tende le mani per prendersi cura di noi. Si tratta di un sentimento religioso che invoca un Mondo trascendente il Mondo - dice Recalcati -, che vive la dimensione spirituale a partire dalla miseria di questo Mondo. Ma la preghiera, che esige l'esistenza di un Mondo eterno, non intaccato dalla miseria, non nasce forse come esito di un lutto melanconico, che non si elabora mai, ma al contrario, si cronicizza? Non è questa forma melanconica della preghiera, che rischia di non portare mai a termine il lutto? Ma di elaborare un finto lutto? Non è preferibile frequentare la ferita del lutto attraverso la memoria, la convivenza con gli oggetti che ci "parlano", ascoltare i racconti delle persone che condividono il dolore della scomparsa? Non è questo il compito etico, sacro, che si affida alle Cose del mondo? Non è grazie alla trascendenza delle Cose che parliamo e camminiamo con i nostri morti?

Recalcati racconta, riportando un breve riassunto delle ultime pagine de La strada di Cormac McCarthy, un aspetto del lutto cruciale. È la storia di un bambino che assiste il padre morente. Il figlio si trova nella posizione di accompagnare il padre alla morte chiedendogli se potranno ancora rivedersi. Il padre gli risponde che avranno modo di "parlarsi". "Pensate - aggiunge Recalcati - che in tutte le culture, da quando esiste l'uomo, esiste anche il tema del parlare con i morti o, in generale, il fatto che i morti possano parlare, ci parlino, ci siano tracce delle parole dei morti. È uno dei grandi temi dell'umanità". Ne La strada, il padre dice al bambino, che non si rivedranno più, ma si parleranno, e il fuoco, che distingueva i buoni dai cattivi, adesso lo deve portare dentro di sé, e se lo farà, potranno parlarsi. Una eredità che permette a questo figlio di incorporare la perdita del padre. Incorporare il fuoco è incorporare il morto. Parlare con il morto è un modo per pregare. L'unica "preghiera" è parlare con i nostri morti. La preghiera che consente di incorporare il morto.

Ma allora è questo l'esito del lutto? Incorporare il morto attraverso la "preghiera"? Pregare è parlare con i nostri morti? Parlare con loro è il modo di incorporarli? Recalcati offre una risposta affermando che: "possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto, perché lo abbiamo ricordato, lo portiamo con noi, fa parte di noi. Ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare". Parlare con il morto è una preghiera che vive nel sentimento "religioso" di chi crede in una spiritualità vissuta come singolare capacità di cogliere la bellezza di questo Mondo che non invoca un altro Mondo più vero, senza tempo. L'esito del lutto possiamo intenderlo come una dimensione spirituale in cui la preghiera è incorporare il morto attraverso la memoria delle Cose e trasformando, il colore nero del dolore, nella luce di una vita generativa. L'unico modo per elaborare il lutto, secondo la tesi di Recalcati, è conservare la ferita ed elevarla alla bellezza della poesia. Solo l'esito del lavoro del lutto, può sublimare poeticamente la ferita che resiste all'oblio della memoria. Nel fitto mistero delle Cose del Mondo, che danno un Volto al Mondo, si compie il lavoro del lutto come esercizio di riabilitazione alla vita. 

La forma della mancanza

L'arte ha il compito etico di indagare sulla possibilità di includere la mancanza nella forma. Dipingere è un'operazione simbolica che gli artisti attivano per incamerare i morti. Come può il reale - impossibile da raffigurare - diventare un' immagine? Come catturare i contorni incerti dell'impossibile? Come dare forma all'invisibile? Come realizzare un' icona dell'invisibile? Come può, la pratica formale dell'arte, ospitare l'informe? In che modo la pratica dell'arte e la psicoanalisi danno forma all'informe e senso all'insensato? L'incontro con l'assenza si manifesta in una poetica che si avvicina al corpo invisibile del reale.

"La pittura, come la scrittura, non si incaricano forse di dare forma all'esperienza senza forma della morte? Non sono resti, residui, resistenze al trauma del reale? Mio padre mi insegnava silenziosamente la radice ultima della pratica dell'arte: la luce dell'oro può accadere solo sullo sfondo di un'assenza, di un vuoto che non si lascia colmare. Una profonda lezione di estetica: l'assoluto mistero della vita e della morte sfugge a ogni immagine - come ad ogni parola - , ma l'immagine - come ogni parola - diviene "quadro" quando accosta l'impossibile da rappresentare, quando offre se stessa come l'indice di questo impossibile". [3]

Il tentativo operato da Recalcati si compie nella sua maniera poetica di interrogare il mistero delle cose come manifestazione di un taglio simbolico che sprigiona una mancanza nell'esistenza. Il suo racconto è un lento e metafisico viaggio nell'uso impossibile dei colori, nella caducità degli oggetti, nell'ombra come "sangue della luce", nel Nero della notte come muro invalicabile, nell'oro delle lettere scritte attorno ad un invisibile vuoto centrale.

"L'evento dell'opera d'arte, quando è tale, vive della sua sola immanenza anti-illustrativa - ogni opera non vuole dire niente, non significa niente se non se stessa -, ma proprio per questo, proprio perché il suo evento è al di là di ogni riferimento ad esso esterno, deve rifiutarsi a ogni riduzione tautologica preservando la sua trascendenza interna. L'immanenza dell'opera porta infatti sempre con sé un'apertura che accade solo come piega interna alla sua totale immanenza". [3]

Recalcati, attraverso la lettura di un' opera pittorica, che si prende cura di raggiungere il mistero delle cose, illustra il mistero dell'invisibile, della Morte, come la cifra poetica di pittori, capaci di rendere la ferita, una possibile espressione dell'assenza ad essere. Lo sforzo mistico di un artista è emancipare l'icona dal volto del santo perché "non c'è alcuna separazione tra mondo fisico e mondo metafisico" - sostiene Parmiggiani.

Si tratta di una elaborazione raffinata e insolita che Recalcati compie per leggere il mistero dell'assenza come evento di un'opera che anticipa la ricerca psicoanalitica. Una prova in cui Recalcati intreccia il lavoro del lutto, teorizzato da Freud, alla sua eclettica lettura psicoanalitica della pittura contemporanea, captando una metamorfosi dell'assenza imperitura in una presenza incamerata metaforicamente. In questo complesso lavoro, egli sovverte le regole della canonica critica d'arte, interessata alla produzione pittorica, a partire dall'inconscio degli artisti. Con Recalcati assistiamo ad una nuova iconografia. Egli si conferma, nella sua peculiare capacità visionaria, di saper offrire un folto bagaglio di domande, indicandoci una prospettiva più aperta e diretta verso l'inconscio dell'opera. Secondo la tesi di Recalcati l'evento dell'opera esorbita quello delle parole.

L'arte e la psicoanalisi sono impegnati nel dare una forma alla mancanza, una forma che ospiti il reale impossibile da immaginare e nominare. L' evento dell'opera circonda il reale senza senso della vita e della morte. Ne Il mistero delle cose, Recalcati svela il lavoro dell'arte come rito di sublimazione poetica, che non nasconde il mistero della morte, bensì lo accosta, lo avvicina paragonando, il moto silenzioso di un pittore, al silenzio dello psicanalista. Le parole di Parmiggiani, riportate nel testo da Recalcati, ci informano che: 

"l'alfabeto della pittura non appartiene né alla parola né al pensiero logico. L'arte non ha bisogno di alcuna risposta: è una domanda che vuol restare tale. Iniziare a parlare del proprio lavoro significa cominciare a tacere perché l'opera è un'iniziazione al silenzio". [5] 

Solo se c'è incontro con l'impossibile, può darsi una vera esperienza del possibile - scrive Recalcati nel suo capitolo dedicato all'opera di Giorgio Morandi. Si tratta di accostare, l'esperienza della mancanza, alla poesia dell'arte come testimonianza di un Resto che ci obbliga a non conoscere fino in fondo il mistero delle cose. Recalcati decifra, ciò che la pratica pittorica, ha anticipato grazie al dinamismo creativo di artisti che hanno elaborato, in una chiave senza veli, il reale. Un reale spaventoso, che grazie ad un lavoro di metaforizzazione, viene trattenuto in questo mondo, da una presenza residuale dell'oggetto assente. Esiste una sacralità nella trascendenza delle cose, un resto che non si lascia cancellare. Il mistero non è - aggiunge Recalcati - al di là della presenza delle cose, ma tutto custodito da quella presenza, presente nella presenza come una trascendenza che ci spiazza e ci scuote. L'evento sacro, spirituale, non si compie liberandoci delle Cose del Mondo come fossero pesi. Non sono zavorre. Questo è l'equivoco astrattista di Kandinskij, e di quegli artisti che hanno concepito la spiritualità, come un evento dell'opera, in cui l'icona, si candidata a divenire "immateriale". L'icona di un'opera si incarna nell'opera stessa.

La pittura diventa la pratica con cui "un'assenza spicca su ogni presenza" ci svela Recalcati quando descrive l'opera anti-platonica di Parmiggiani. L'evento dell'opera è dunque anti-platonica.La pittura contemporanea, che segue questo registro, non dimentica la Cosa perduta, non la cancella del tutto ma prova a farla risorgere, a scovare la luce che resiste alla deriva irreversibile della morte. In particolare Recalcati scrive: "il movimento di Parmiggiani, come quello di Congdon, Kounellis e Frangi, non esorcizza ma sfida l'ombra, la insegue, prova a dipingerla, a includerla e non a escluderla dall'essere". Un desiderio che spinge verso la vita, verso l'eternità. Una diversa eternità che non si tinge di oro bizantino, come accade nell' iconostasi classica, ma assiste al rovesciamento, non solo di Platone, ma del platonismo proprio della pittura tradizionale. Per Recalcati "l'immagine non deve salvare dall'erosione del tempo ma diventare un suo testimone diretto". Ogni gesto creativo diventa un segno del tempo che non dimentica definitivamente, ma conserva una traccia, un'ombra, una cicatrice. L'immanenza dell'opera è sempre arretrata rispetto all'eccedenza dell'immagine, così come le parole non sono mai puntuali nel tentativo di nominare l'invisibile.

"Per Lacan l'azione del linguaggio desertifica la vita, la rende mancante apre in essa una ferita, una lacerazione che non può essere guarita facendo della vita stessa una figura dell'esilio. La casa rossa, bruciata e distrutta diventa polvere e cenere è innanzitutto opera del linguaggio. Nichilismo? L'assenza è sempre un prodotto della lingua, della sua azione negativizzante sulla vita". [6]

L'assenza si nutre di mancanza. La mancanza è l'effetto del taglio inferto dalla castrazione, che deposita nel reale, un limite a godere di tutto. C'è sempre qualcosa che resta della Cosa perduta. Esiste un segreto, qualcosa che sfugge, qualcosa che riemerge dal nero, dall'angolo, dall'ombra. Recalcati, descrivendo le Delocazioni di Parmiggiani, inaugura un paragrafo emblematico sulla poetica del resto. Un resto che prende forma, in una pittura che non si arrende alla impossibilità di dare immagine alla mancanza, alla morte, all'insensatezza della vita. L'iconostasi di Parmiggiani, - scrive Recalcati - diversamente da quella del pittore di icone tradizionale, è "dolente":

"La cosa quotidiana descritta nella sua nuda presenza si rivela solenne, icona visibile dell'invisibile, come le bottiglie di Morandi, le pietre o i sacchi di carbone di Kounellis. Con la differenza, come vedremo, che in Parmiggiani è come se fosse accaduto un cataclisma. Il fumo invade ogni spazio, ricopre della sua materia aerea ogni cosa. Queste presenza rinviano al reale come impossibile da rappresentare, come mistero della presenza. [...] Sono presenze non tutte in presenza, nel senso che non sono immagini idolatriche che offrono se stesse senza contemplare la dimensione della mancanza". [7]

Ma la mancanza non è custodita, forse, nell'assenza che vive nelle sagome misteriose degli oggetti abbandonati? Non è in questi oggetti che si elegge la presenza dell'assenza? Non è nella funzione "morta" delle cose, che intercettiamo la vita, la presenza come segno distintivo di una assenza?

"La Cosa è da sempre una Non-Cosa, insiste a dire Lacan. L'oggetto brucia come è bruciata la casa rossa del pittore. Di esso residua una traccia - un'immagine indelebile, un'immagine-segno - che non è però traccia della presenza , ma della sua assenza assoluta. Non deve sfuggire la matrice lacaniana di questa poetica: il morso del fuoco è il morso del linguaggio che erode la presenza della Cosa; il suo residuo è il carattere indelebile dell'immagine che insiste, che non si lascia inghiottire dal nulla". [8]

L'unica presenza è l'assenza - indica Recalcati. Il residuo evoca l'oggetto perduto. L'oggetto amato. Il lavoro del lutto stordisce, confonde; è il colore nero assoluto della notte, in cui si intravede una luce che avanza nel buio, nell'ombra delle sagome, nell'angolo di una stanza. Ma il buio, il nero, sono davvero le ultime parole che possiamo pronunciare nel lavoro complesso del lutto? Il buio della notte non è qualcosa che viene dal giorno e prepara ad un nuovo giorno? A proposito dell'opera di Parmiggiani, Recalcati scrive:

"l'assenza non è il contrario della presenza, così come l'ombra non è il contrario della luce. Piuttosto essa evoca la presenza nella forma del resto. E ciò significa che mentre l'impronta sancisce la perdita irreversibile dell'oggetto, ne commemora, nel medesimo tempo, la presenza: la scala, la finestra, la biblioteca, i libri, il violino, persino il proprio stesso corpo, lasciano di sé solo gli orli fragilissimi, tracce, sedimentazioni di fumo e polvere. La sostanza solida della materia si smaterializza, la presenza si ritira assentificandosi". [9]

©stefanialeone2017
©stefanialeone2017

Il lutto non implica forse esilio, solitudine, lontananza, attraversamento della Notte? Ma come si attraversa la notte? In modo melanconico? O in modo maniacale? O grazie ad un lavoro che genera un resto della perdita che non cade mai del tutto nell'oblio? Non scivola mai nel nero della notte, nel buio, ma c'è sempre una rinascita, una brace che vuole infiammarsi, un'ombra da cui riemerge il fuoco, la luce.

"Della vita non sopravvive che una traccia, un segno, un'impronta appunto. Non perché sia il linguaggio a cadere con il suo peso sulla realtà inerte e pre-esistente della Cosa, ma perché la Cosa è da sempre perduta, smangiata, frammentata, assentificata dall'azione del linguaggio. Questo significa che è l'assenza il vero volto della presenza, che il volto dell'oggetto non è quello che era prima della combustione ma quello che viene generato dalla combustione". [10]

Il colore impossibile

Il nero della notte è la dimensione "cromatica" con cui Recalcati costruisce il suo discorso interessandosi al resto "visibile" del mistero della vita e della morte, attraverso l'opera pittorica di grandi artisti che hanno accostato il reale. Il racconto fenomenologico di Recalcati è un viaggio, semantico ed estetico, che scava nell'uso impossibile dei colori, nella caducità degli oggetti, nell'ombra come "sangue della luce", nel Nero della notte, nell'oro delle lettere sui nastri blu. Gli artisti, che interroga Recalcati, elevano la materia, di cui è fatto il mondo, al rango dell'assoluto. Ciò vuol dire sottrarre gli oggetti, dalla ripetizione "anonima" della produzione industriale, per nominarli, renderli unici al mondo. Il sacro è una figura del reale - scrive Recalcati, a proposito dell'opera di Kounellis. Nelle pagine seguenti, illustrando l'opera di Parmiggiani, aggiunge: "l'opera desidera il segreto, il silenzio, necessita di custodire un mistero. Per questa ragione le presenze che la abitano non possono mai essere ridotte a delle semplici presenze. La presenza dell'opera non esaurisce mai la sua presenza; l'immagine artistica è sacra in quanto è un'apertura sul mistero irrisolvibile delle cose".

©stefanialeone2014
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Nel pensiero di Recalcati, il complesso lavoro del lutto, si associa al buio, al nero della notte. Egli scrive: "l'incantesimo del colore lascia il posto a uno scavo verso il nero e il grigio, l'assenza di significato, la presenza della vita nel suo eccesso privo di senso, l'imminenza della morte". Ma il colore della notte è qualcosa che si può rappresentare? La morte ha un colore? Recalcati risponde con una lucida disamina di alcuni capolavori del panorama contemporaneo, costruendo il leit motiv che li lega per la potentissima plasticità e carica evocativa. Il Nero, inteso come il nero della notte o il nero della cenere viva, esiste nelle opere di Congdon, Tapies, Parmiggiani, Kounellis e Frangi.

È attorno alla lezione del nero che Recalcati prova a interrogare un esito del lutto più reale, imperfetto, e quindi credibile. Accosta il ciclo dinamico dei pittori, alla pratica psicoanalitica. Un lavoro di ricostruzione di ciò che Resta del lavoro del lutto. Non è questo, forse, il Resto sublimato che intravediamo in Frangi, Morandi, Parmiggiani e Burri? Se la morte è la testimonianza della Cosa perduta, la pittura non dipinge altro che il resto dell'immagine o l'immagine come resto della Cosa perduta - scrive Recalcati. Il lavoro del lutto si tinge di nero, deborda l'incomprensibile da rappresentare. Il nero, impossibile da dipingere, è silenzioso. Viene invocato, eletto, come residuo di una castrazione del colore. Il tema dell'assenza è visitato come esperienza del vuoto, del buio, del nero. Il nero è il "colore" scelto per sprofondare nella difficoltà di definire i contorni, nominare il limite. Il nero segna uno spartiacque, un limite tra l'impossibile e il possibile, tra la morte e la vita. Il nero favorisce l'invisibile, copre la possibilità di leggere una forma. Leggere i contorni delle "cose" diventa impossibile nel buio della notte. Ma è a partire da questa sostanziale impossibilità, che l'operazione simbolica messa in atto dalla pittura, rende possibile l'atto creativo, il dare forma all'invisibile, fare spazio al colore, illuminare la notte. Il nero rappresenta, innanzitutto, la castrazione del colore. Il monocromo - scrive Recalcati - non si pone in alternativa secca al colore, ma viene raggiunto proprio attraverso il colore, grazie al colore, per la via di un lavoro pittorico che esige di esplorarne, altrettanto metodicamente, tutte le possibilità espressive. La castrazione è a fondamento della possibilità di ogni sublimazione. "Se non c'è castrazione, se non c'è separazione, distanza dalla Cosa più familiare, dalla Cosa più prossima, dalla Cosa materna appunto, non si dà alcuna possibilità di creazione". L'icona è in bilico tra l'ombra e la luce. La morte si dichiara nell'icona che contempla il buio, approva una apertura all'imperfezione, non arretra rispetto al limite impercettibile della notte, non sfugge alla crudeltà di una ferita, alla cecità del nero. È un discorso del Nero, quello che Massimo Recalcati, ci propone nel tentativo di decifrare, grazie al registro etico dei pittori, un lavoro di ricostruzione, di codificazione di ciò che resta del lavoro del lutto. Raggiungere il colore nel punto della sua sparizione [...] tenerlo in vita nel punto del suo ritrarsi sono le parole scelte da Recalcati per contemplare il lessico monocromo di Giovanni Frangi:

"Ecco, mi dicevo, dove era arrivato anche Giovanni. Anche lui lì, come Tapies, come Rothko, ma anche come Congdon, Kounellis e Parmiggiani, sul bordo più estremo della pittura, sul suo limite. Si può dipingere il nero? Si può dipingere il mistero della notte? Frangi era lì, prossimo, vicino, molto vicino a Tapies, ma vicino, molto vicino, senza saperlo, al mio stesso percorso. Lavorando in quegli anni su Tapies ritrovavo, infatti, nell'opera del maestro catalano il senso più profondo della pratica della psicoanalisi[...] Non eravamo allora tutti e tre riuniti attorno a quel mistero che Jacques Lacan nomina con il termine "reale"? [11]

Il nero corposo e tragico della tela, non evoca forse l'esperienza di un appello inutile che dia senso al dolore di sopravvivere alla persona cara? Il nero è il colore della Notte, della morte, del vuoto centrale che la perdita scava nel Mondo di chi è "costretto" a elaborare il distacco. La pittura presta i suoi strumenti per intrappolare l'assenza, sul bordo indefinito della presenza. La luce del giorno non è, infondo, - si chiede Recalcati - la stessa luce che si intravede nella coltre spessa della notte? 

Una reazione di tristezza 

L'opera di Frangi, esplorata da Recalcati, ricalca e conferma, il mio moto esistenziale nel cercare la luce anche quando cala la notte. Cercare di mantenere una possibilità, nell'impossibilità che il lutto mi propone, di mantenere viva una fede che guarda oltre il nero.

"Se l'ombra non è tollerata dal pittore di icone, è proprio l'ombra - il punto dove la luce sembra sottrarsi - ciò che Frangi insegue, bracca, contorna sino allo stremo delle sue forse. Seguire la luce proprio dove sembra morire, non emancipa la luce dal buio - secondo una sensibilità gnostica che non gli appartiene -, ma mostrare che è proprio nella notte che dobbiamo provare a trovare la luce del giorno" [12].

La ricerca della "luce" nel buio della notte, avviene per me, nella fotografia. Fotografare vuol dire scrivere con la luce. A partire dalla scoperta casuale delle sovrapposizioni cinematografiche di Vittorio Storaro, fino ad arrivare alla lettura dei paesaggi, o degli interni, di Luigi Ghirri, ho appreso negli anni, una lezione fondamentale che accompagna e definisce la mia fotografia arricchita da silenzi. Nel mio personale lavoro si tratta sempre di ricominciare a ricordare attraverso i luoghi, interni ed esterni, le cose che mi appartengono, in cui mi riconosco. Dopo circa cinque anni mi ritrovo nella stessa casa a confrontarmi con i miei fantasmi, con quel Mondo - come direbbe Luigi Ghirri - dove si incrociano odio e amore, il tutto e il nulla, la noia e l'eccitazione. Nei luoghi "tra rinascimenti raffinati e neorealismi strapaesani" il fotografo è messo alla prova - sosteneva Ghirri. Nella poetica fotografica di Ghirri le immagini sono filtrate da un lieve velo di commozione con cui ha saputo restituire una tipografia simbolica. Egli sosteneva che "proprio questi intervalli enormi, temporali e spaziali, tra le cosmogonie alchemiche di palazzo Schifanoia e i fiori di cactus davanti alle persiane della casa di fronte, bicchieri di vino e visioni metafisiche, rendono difficile una fotografia del luogo". La sua fotografia si rivolgeva con chiarezza alle cose che sono solo se stesse. In Lezioni di Fotografia, Ghirri, a proposito di fotografie di una serie titolata Interno italiano, afferma: 

"E' sufficiente che mostrino tutto quello esiste all'interno della stanza, dai mobili di arredo alle finestre e al decoro, e tutto sommato il problema della presentazione, quindi della percezione di uno spazio all'interno di una casa, di uno spazio che viene vissuto dalle persone, è risolto, almeno in una certa misura. [...]nelle riviste di arredamento, o comunque nelle riviste di architettura, l'ambiente viene, almeno nella metà dei casi, totalmente ricostruito [...] diventa una vera e propria natura morta. Non è mai la fotografia di un interno, di un vissuto, di uno spazio che si rapporta con l'esistenza, ma diventa uno spazio decorativo da mostrare sulla rivista". [13]

Le sue immagini non sono mai decorative ma un tentativo autentico di accostare, con la massima chiarezza, il reale delle cose. Nei suoi interni non esistono oggetti "in posa" ovvero spostati secondo una migliore composizione. Le cose fotografate, sono oggi, esattamente dov'erano e com'erano. Era il suo punto di vista a spostarsi secondo un gioco di quinte che simulavano, nell'interno della stanza, un piccolo palcoscenico. Ghirri conosceva bene le regole della prospettiva e le usava per dare profondità alle cose, scegliendo ogni volta, oggetti in primo piano rispetto al fondo. Un dato importante è la resa della luce naturale - scrive Ghirri. Il reale della luce esistente: illuminazione naturale o artificiale? La mescolanza delle due, era solitamente presente, per determinare esattamente l'atmosfera di un luogo. Si trattava sempre di ambienti vuoti, senza presenze. Ghirri usava il tempo lungo dell'impostazione manuale della fotocamera, per rapportarsi con un luogo in cui fosse contenuto il gesto della persona in modo che si potesse leggere una storia attraverso gli oggetti, senza dover identificare la persona, ma collocarla in una data iconografia. Per rappresentare questa presenza, adoperava il mosso con l'intento di evocare la figura che abitava quel luogo. Il lavoro dell'evocazione attraverso gli oggetti era caro a Ghirri, tanto da fotografare lo studio di Giorgio Morandi, alla morte del pittore, in cui tutto era stato lasciato com'era. Avrebbe potuto - come egli stesso dichiarava - pulire la scena, togliere elementi definiti piccoli incidenti all'interno della rappresentazione. Sceglieva una comunicazione semplice, la stessa semplicità che gli permise di lavorare nello studio di Morandi, al quale era legato affettivamente. Si trattava di una occasione per lavorare sulla memoria di una persona scomparsa che ha realizzato immagini - scrive Ghirri. Un'immagine fotografica che riflette un'altra immagine, nel caso di Morandi, pittorica. 

Si tratta di una testimonianza per me inevitabile. Ancora oggi, nel momento in cui mi ritrovo a contatto con il mistero delle cose che mi circondano, faccio appello alla fotografia per evocare chi non è più presente. Si tratta di registrare fotograficamente gli oggetti, le camere, il panorama visto da una finestra, sempre la stessa. Il panorama è lo stesso, ma per me è sempre nuovo. Questo stesso panorama ha fatto da sfondo all'esistenza della mia quotidianità familiare. È stata la scena del mondo in cui noi tutti abbiamo abitato. Il temporale, l'ombra, la polvere, filtrano l'immagine di questa scenografia familiare ridimensionata dalla finestra. 

Tutto questo Mondo, ritratto attraverso una finestra, è una continua lettura, del giorno e della notte, del paesaggio, del rapporto tra interno ed esterno ed è sostanzialmente il mio vivere questi ambienti nel ricordo di chi non c'è più. Sono quotidiani incontri con qualcosa che mi scuote. Non si tratta di cercare cosa mi può colpire, ma faccio esperienza di un ritrovamento improvviso che mi sorprende. Tutto avviene nell'ordine del caso. Raffigurare l'impossibile esorbita in una castrazione del colore. L'ora blu rappresenta, in fotografia, l'ora in cui il blu intenso del cielo si prepara ad entrare nel nero profondo, nel buio spesso della notte. È un passaggio lento, graduale che si addentra nel nero della notte, al limite della percezione di quei contorni ancora riconoscibili ma difficilmente percepibili senza l'aiuto di una luce. È l'ora in cui la notte non è ancora notte, il cielo non è ancora nero ma prossimo al nero. Si gioca sulla gradazione dei toni, tra il blu scuro e il nero. Su questo bordo, tra la tonalità del blu e la tonalità del nero, si opera il passaggio delicatissimo tra l'ora in cui è ancora possibile immaginare e il nulla tragico e assoluto. In questo movimento verso il nero, la mia ricerca dell'ora blu mantiene l'immagine della notte in una sua rappresentazione non assolutamente buia, ma dove è possibile leggere l'invisibile, dove si può scorgere la luce nell'ombra più spessa. Non le tenebre o la luce - direbbe Recalcati - ma la luce nelle tenebre.

©stefanialeone2014
©stefanialeone2014

Ma vedere l'invisibile non è forse vedere una possibilità in un reale impossibile? Vedere una possibilità non è scorgere una luce tra le tenebre? Vedere i contorni nel nero della notte non equivale a "trovare", nell'incontro con il reale, una tyche che sconvolge? Il mio percorso creativo è credere, che nel buio instaurato da un reale impossibile da sopportare, esista una luce, una speranza, una possibilità di rinascita. Credere in questo mondo e avere fede nella possibilità, che questo Mondo, non sia solo una fucina di dolori, tragedie, ma sia capace di generare rari momenti di felicità. Questa rarità li rende tragicamente reali, profondamente sinceri, incredibilmente eterni. 

Sentire l'assenza di chi non è più presente è abitare i residui di presenze ormai assenti. In ogni frammento rivivo un momento. Nel loro insieme si rivela la visione del Mondo. Ovunque mi giri, in casa, l'assenza è una presenza tra i ricordi che si affollano caoticamente, che annebbiano la vista, che si ripropongono di notte nei sogni. Esiste sempre uno scarto, un resto che resiste ad ogni opera di rappresentazione. Occorre accettare la formazione di un resto come frammento che assuma le sembianze di una soggettività che non rinneghi il passato, non cancelli la ferita, ma la porti con sé, nel buio della notte, perché diventi una luce che trasformi la ferita in un nuovo sintomo.

note: [1] Massimo Recalcati, Il vuoto e il resto. Il problema del reale in Jacques Lacan. Mimesis © 2019 Milano, pag. 93. [2] Massimo Recalcati, Incontrare l'assenza, © 2016 Asmepa Edizioni, pag 13. [3] Massimo Recalcati, Il mistero delle cose, Introduzione, © 2016 Feltrinelli). [4] Ibidem. [5] Ivi, pag 180). [6] Ivi, pag. 196). [7] pag 181. [8] Ivi, pag 199. [9] Ivi, 198. [10] Ivi, pag. 199. [11] Ivi, 238. [12] Ivi, pag. 242. [13] Luigi Ghirri, Lezioni di Fotografia, © 2010 Quodlibet s.r.l., pag. 41).

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